Analisi Economica del Giappone e Rischi di Collasso Sistemico Globale
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GIAPPONE
Lorenzo Serio
6/4/202526 min read


Dagli anni Ottanta a oggi l’economia giapponese ha vissuto una profonda trasformazione, passando da una fase di forte espansione a un prolungato periodo di stagnazione e deflazione, fino alle sfide più recenti legate all’inflazione e all’aumento dei tassi d’interesse. In questo rapporto analizziamo in dettaglio sei aspetti cruciali della vicenda economica del Giappone negli ultimi 40 anni: (1) l’evoluzione del debito pubblico, la spesa statale e la gestione fiscale; (2) il ruolo centrale del Giappone nei flussi di carry trade globale e i relativi rischi sistemici; (3) l’impatto dell’aumento dei tassi d’interesse sulla sostenibilità del debito e sulla stabilità di banche, assicurazioni e sistema finanziario; (4) i problemi strutturali di lungo periodo, tra cui il declino demografico, la deflazione cronica e la stagnazione della produttività; (5) la riemersione dell’inflazione e l’aumento dei costi di beni chiave (come generi alimentari ed energia); (6) il potenziale di propagazione a livello globale delle fragilità economiche e finanziarie giapponesi, attraverso crisi del credito, shock valutari o turbolenze nei mercati emergenti legati al carry trade. Ogni sezione include dati aggiornati (2023-2025), statistiche ufficiali e analisi di istituzioni economiche primarie, con l’obiettivo di chiarire in che modo ciascun fattore può contribuire a tensioni globali.
Debito Pubblico, Spesa Statale e Gestione Fiscale
Il Giappone presenta oggi il debito pubblico più elevato al mondo in rapporto al PIL, frutto di un trend di crescita pluridecennale. Negli anni ’80 il debito era relativamente contenuto (circa 50% del PIL nel 1980), ma è aumentato a dismisura dopo lo scoppio della bolla finanziaria nei primi anni ’90 . Già nel 2000 il debito aveva superato il 130% del PIL, raggiungendo il 200% nei primi anni 2010 e continuando poi a salire. Durante la pandemia di Covid-19 e la successiva recessione globale, il rapporto debito/PIL ha toccato un massimo storico di circa 260% nel 2022, per poi assestarsi intorno al 255% nel 2023. Questi livelli “da capogiro” – oltre due volte e mezza il PIL – sono di gran lunga i più alti tra le economie avanzate. Le cause affondano nelle politiche fiscali espansive adottate negli ultimi decenni: per contrastare la stagnazione economica e la deflazione, il Giappone ha accumulato disavanzi di bilancio significativi anno dopo anno.
Parallelamente al debito, la spesa pubblica giapponese è cresciuta enormemente. Nel 1980 la spesa governativa trimestrale era di circa 44 mila miliardi di yen; oggi supera i 119 mila miliardi di yen a trimestre (dato del Q4 2024) un aumento quasi triplo in termini nominali. In percentuale sul PIL, la spesa pubblica si attesta attorno al 40-42%. I bilanci statali sono in disavanzo cronico: ad esempio, nel 2022 il deficit pubblico complessivo era pari a circa -5,5% del PIL. Grazie alla ripresa economica post-pandemica e a maggiori entrate fiscali, il disavanzo si è lievemente ridotto intorno al -2,5% del PIL nel 2024imf.org, ma le proiezioni indicano un nuovo peggioramento in assenza di correzioni. In altre parole, il debito continua a crescere in valore assoluto e, nonostante un temporaneo calo del rapporto debito/PIL dovuto all’inflazione recente, rimane su una traiettoria insostenibile a lungo termine. La gestione fiscale rappresenta quindi una sfida centrale. Gli organismi internazionali sottolineano la necessità per il Giappone di ridurre le vulnerabilità di bilancio nel medio termine. il Fondo Monetario Internazionale, ad esempio, raccomanda di predisporre un piano credibile per compensare l’aumento della spesa per interessi sul debito pubblico e i crescenti oneri legati a sanità e assistenza di lungo periodo, al fine di assicurare la sostenibilità del debito e ricostituire margini di manovra fiscale. Ciò potrebbe implicare sia misure sul fronte delle entrate (come ulteriori incrementi delle imposte, ad esempio l’IVA già portata al 10% nel 2019) sia una razionalizzazione della spesa, preservando però gli investimenti pubblici di qualità. Gli analisti sottolineano anche l’importanza di disciplina nella gestione dei bilanci supplementari (frequenti in Giappone) e di un rafforzamento del quadro fiscale di medio termine, accompagnato da una strategia robusta di gestione del debito
Va evidenziato inoltre il ruolo della Bank of Japan (BoJ) nel reggere il peso del debito: negli ultimi dieci anni, tramite politiche monetarie non convenzionali (quantitative easing e controllo della curva dei rendimenti), la BoJ è diventata il maggior acquirente di titoli di Stato giapponesi, mantenendo artificialmente bassi i tassi di interesse sul debito sovrano. Questa situazione sfocia in quella che molti economisti chiamano dominanza fiscale, ovvero una dipendenza della politica monetaria dalle esigenze di finanza pubblica. La BoJ ha di fatto garantito finanziamenti a costo quasi zero al Tesoro per lungo tempo, ritardando il problema ma anche legando le mani alle autorità monetarie: qualsiasi segnale di rialzo consistente dei tassi rischierebbe di far aumentare drasticamente gli oneri di servizio del debito pubblico. In sintesi, il Giappone si trova in un equilibrio delicato tra debito elevatissimo e tassi bassi: un equilibrio reso possibile finora dalla coordinazione (implicita) tra politica fiscale e monetaria, ma che non può durare indefinitamente senza riforme strutturali e un percorso di consolidamento credibile
Il Giappone e il Carry Trade: Ruolo e Rischi Sistemici
Per decenni il Giappone ha svolto un ruolo cardine nei mercati finanziari internazionali attraverso il fenomeno del yen carry trade. In un carry trade, gli investitori prendono a prestito in una valuta con tassi di interesse bassissimi (valuta “di finanziamento”, come lo yen) e investono in attività denominate in valute ad alto rendimento (valute “d’investimento” come dollaro USA, dollaro australiano, peso messicano, ecc.), lucrando sul differenziale di tasso Questa strategia è stata altamente profittevole sin dagli anni ’90 grazie alle politiche ultra-espansive giapponesi: il Giappone ha mantenuto tassi d’interesse prossimi allo zero per quasi trent’anni, facendo dello yen una fonte di liquidità a basso costo preferita a livello globale. In particolare, dopo il 2013 (con le politiche di Abenomics) la BoJ ha perseguito un tasso di interesse ufficiale negativo e un massiccio acquisto di bond, rafforzando ulteriormente il ruolo dello yen come valuta di finanziamento.
Negli ultimi anni, i flussi di yen carry trade si sono intensificati. Quando la Federal Reserve statunitense ha iniziato ad alzare aggressivamente i tassi nel 2022, il differenziale di rendimento tra dollaro e yen si è ampliato notevolmente, incoraggiando ancora più investitori a prendere in prestito yen da investire in dollari (o altre valute ad alto tasso) . Valute come il peso messicano o il real brasiliano – con tassi d’interesse domestici a due cifre – sono diventate mete ambite per questi capitali speculativi finanziati a Finché lo yen rimaneva debole e i tassi giapponesi inchiodati allo zero, il carry trade offriva guadagni facili: gli investitori assumevano il rischio di cambio confidando che lo yen non si apprezzasse (in effetti per molti anni lo yen si è anzi gradualmente deprezzato, incentivando ulteriormente la strategia)
Tuttavia, questo equilibrio si è rivelato fragile. A metà del 2024 si è assistito a un brusco reversal (inversione) del carry trade yen-finanziato. Diversi fattori hanno innescato il cambiamento di sentiment: da un lato, segnali di rallentamento dell’economia USA (dati deludenti sul mercato del lavoro estivo 2024) hanno alimentato l’aspettativa di possibili tagli dei tassi Fed ; dall’altro, la BoJ – di fronte all’inflazione in risalita – ha cominciato a normalizzare la propria politica, alzando lievemente il tasso guida e lasciando intravedere la fine dell’era dei tassi negativi . Questa combinazione (minor differenziale di tasso futuro e prospettiva di uno yen più forte) ha spinto molti investitori a chiudere contemporaneamente le posizioni di carry trade, per evitare perdite. Il risultato è stato un rapido apprezzamento dello yen nell’agosto 2024 e una turbolenta ondata di vendite sui mercati : i trader, nel tentativo di uscire in massa dal carry trade, hanno dovuto ricomprare yen e vendere gli asset in valute ad alto rendimento, accentuando ulteriormente la salita dello yen in un meccanismo a palla di neve.
Fortunatamente, l’impatto sistemico di questo unwinding è stato finora contenuto, ma ha messo in luce i rischi potenziali. Molte valute emergenti tradizionalmente usate nei carry trade hanno retto relativamente bene, ma alcune (ad esempio peso messicano, real brasiliano, lira turca, rand sudafricano) hanno mostrato movimenti significativi e correlazioni negative marcate con lo yen durante la fase di . Ciò indica che tali valute erano effettivamente bersaglio di posizioni di carry trade: quando lo yen si rafforzava improvvisamente, queste valute si indebolivano, segno di disinvestimenti in atto. Al contrario, le valute dei paesi ASEAN sono risultate meno coinvolte (scarse reazioni e correlazioni deboli) storicamente lo yen carry trade ha puntato di più su altre aree emergenti o su strumenti in . In ogni caso, data l’interconnessione finanziaria globale, nessuna economia è del tutto immune a shock di questo tipo: flussi di capitale altamente volatili possono trasmettere volatilità anche a mercati apparentemente solidi.
In sintesi, il Giappone funge da “banca centrale ombra” dei mercati globali tramite il carry trade. La sua liquidità a basso costo ha inondato per anni i mercati emergenti e persino alcuni segmenti dei mercati avanzati (es. investimenti in azioni USA e asset rischiosi finanziati in yen). Ma il rovescio della medaglia è che qualsiasi segnale di risveglio dei tassi giapponesi o di inversione dello yen può scatenare rapidi aggiustamenti di portafoglio da parte di questi investitori. Questo rappresenta un rischio sistemico latente: come mostrato nel 2024, un cambio di rotta della BoJ può generare reazioni a catena inaspettate (ad esempio, in quell’occasione, persino alcuni titoli tecnologici USA “momentum” subirono vendite correlate al movimento dello yen, un comportamento non convenzionale segnalato dagli analisti). Pertanto, l’evoluzione della politica monetaria giapponese e dello yen è monitorata con attenzione non solo per gli effetti interni, ma anche per le possibili implicazioni sulle dinamiche dei flussi di capitale internazionali e sulla stabilità finanziaria di altri paesi.
Stretta Monetaria, Tassi in Rialzo e Stabilità Finanziaria
L’inflazione riaffiorata di recente (come vedremo nel dettaglio più avanti) ha costretto la Banca del Giappone a rivedere la sua storica politica monetaria espansiva. Dopo oltre 15 anni di tassi zero o negativi, nel 2023-2024 la BoJ ha iniziato ad alzare gradualmente i tassi d’interesse e a ridurre gli acquisti di titoli di Stato, sebbene con grande cautelaimf.org. Questo cambio di rotta – seppur modesto – ha avuto effetti immediati sul mercato obbligazionario giapponese: i rendimenti, soprattutto sulle scadenze lunghe, sono saliti ai massimi da decenni. Nel 2023 la BoJ aveva già ampliato la banda di oscillazione consentita per i rendimenti dei JGB decennali, lasciandoli superare lo 0,5%. Poi, nel marzo 2024, ha formalmente abbandonato i tassi negativi e portato il tasso di policy a +0,5%, iniziando anche una graduale riduzione degli acquisti di titoli pubblici (tapering)imf.org.
Gli effetti si sono visti soprattutto sulle lunghe scadenze: a fine 2024 i rendimenti dei titoli a 30 e 40 anni del Giappone hanno superato il 3%, livelli che non si registravano dal 2000reuters.com. Il movimento ha reso la curva dei rendimenti giapponese la più inclinata degli ultimi 20 anni, segnale di aspettative di tassi più alti nel futuroreuters.comreuters.com. È interessante notare che le scadenze brevi (entro i 5 anni) sono rimaste relativamente calme, mentre il salto si è concentrato sul lungo terminereuters.com. Ciò potrebbe riflettere un cambio di strategia degli investitori istituzionali nipponici (fondi pensione, assicurazioni), i quali con l’era dei tassi a zero avevano “allungato” le scadenze per cercare rendimento e ora stanno riaggiustando le allocazioni in previsione di tassi meno penalizzanti sul brevereuters.com.
Figura 1: Rendimento dei titoli di Stato decennali (linea blu) e trentennali (linea azzurra chiara) del Giappone in confronto ai bond decennali USA (rosso), tedeschi (grigio) e britannici (giallo), dal 2020 a metà 2025. Si nota che i tassi giapponesi (blu) sono rimasti bassissimi rispetto agli altri, ma dal 2022 hanno iniziato a salire, superando l’1% sul decennale e avvicinando il 2% sul trentennalereuters.com. I rendimenti esteri invece avevano già avuto forti rialzi nel 2022.
Questo rialzo dei tassi comporta importanti implicazioni per il debito pubblico e il settore finanziario. Sul fronte delle finanze statali, l’era dei tassi quasi nulli ha permesso al Tesoro giapponese di sostenere un enorme debito senza pagare interessi onerosi. Ora, però, il costo medio di finanziamento del debito è destinato ad aumentare: man mano che i vecchi titoli a tasso zero giungono a scadenza e vengono rifinanziati a tassi positivi, la spesa per interessi nel bilancio pubblico salirà. Già il FMI ha evidenziato la necessità di “compensare l’aumento del costo degli interessi sul debito pubblico” con misure correttiveimf.org. In mancanza di crescita economica robusta o inflazione che “eroda” il valore reale del debito, tassi più alti potrebbero aggravare il peso del debito e mettere in discussione la sostenibilità fiscale nel medio termine. Basti pensare che un tasso medio del 2% applicato su un debito pubblico pari a circa 2,5 volte il PIL implicherebbe un onere annuo per interessi intorno al 5% del PIL – un livello difficilmente gestibile senza tagliare altre spese o aumentare le entrate.
Dal lato del sistema finanziario, l’aumento dei rendimenti ha effetti contrastanti. Da un lato, le grandi banche giapponesi traggono vantaggio da tassi più elevati in termini di margini di interesse: i tre maggiori gruppi bancari hanno infatti registrato profitti annui record nell’ultimo esercizioreuters.com, favoriti sia dalla ripresa post-Covid sia dal leggero rialzo dei tassi interni (oltre che dalle attività all’estero). Dall’altro lato, però, molte banche regionali e istituzioni finanziarie minori risultano vulnerabili a un rapido aumento dei tassi. Queste banche locali, negli anni di stagnazione, hanno investito massicciamente in obbligazioni a lunga scadenza (governative e non) per spuntare redditi accettabili in un contesto di tassi a zero. Se i tassi salgono, il valore di mercato di questi titoli scende, erodendo il capitale delle banche. Secondo Moody’s, le banche regionali giapponesi rischiano perdite rilevanti sui loro portafogli di investimento a lungo termine, a meno di disporre di adeguati buffer patrimonialithebanker.com. La stessa Bank of Japan, nel suo Financial System Report, ha evidenziato che la gestione del rischio di tasso di interesse nel banking book sta diventando cruciale: pur rilevando che la resilienza delle banche è migliorata rispetto al passato, la BoJ nota che uno shock sui tassi potrebbe impattare soprattutto gli istituti più piccoli con portafogli concentrati in JGB decennali e ventennali.
Un caso emblematico è quello della Norinchukin Bank, la banca cooperativa agricola e delle pesca giapponese. Norinchukin ha un modello di business fortemente incentrato sugli investimenti finanziari, essendo depositaria di grandi somme provenienti dalle cooperative agricole: negli anni dei tassi negativi, è diventata uno dei maggiori investitori mondiali in obbligazioni estere e prodotti strutturati (CLO) per cercare rendimentireuters.com. Quando però i tassi negli Stati Uniti e in Europa hanno iniziato a salire dal 2022, Norinchukin si è trovata con enormi perdite latenti su queste obbligazioni estere acquistate a tassi bassissimireuters.com. Nel 2023-24 la banca ha dovuto vendere una parte di tali bond, realizzando perdite per 1,81 trilioni di yen (circa 12,6 miliardi di dollari) nell’anno fiscale chiuso a marzo 2025reuters.com. Nonostante queste vendite, alla fine di marzo 2025 aveva ancora 1,2 trilioni di yen di minusvalenze non realizzate in portafoglio (segnalando che potrebbe subire ulteriori perdite se fosse costretta a liquidare). Norinchukin, che non beneficia molto dei rialzi dei tassi interni perché fa pochi prestiti, è un esempio di come l’adeguamento a un nuovo regime di tassi possa essere doloroso per alcune istituzioni finanziarie giapponesi. Vale però la pena notare che il sistema nel suo complesso rimane capitalizzato e liquido: casi come Norinchukin sono monitorati ma finora gestibili, e le autorità giapponesi hanno storicamente mostrato prontezza nell’intervenire a sostegno in caso di bisogno.
Anche il settore assicurativo è esposto alla transizione dei tassi. Le grandi compagnie di assicurazione vita giapponesi gestiscono portafogli enormi (oltre 2,6 trilioni di dollari in aggregato) e, durante l’era dei tassi zero, hanno cercato rendimento acquistando sia JGB ultra-decennali a lunga scadenza sia bond esteri con copertura Ad esempio, preferivano titoli di Stato giapponesi a 30-40 anni (che offrivano qualche decimo di punto percentuale in più dei decennali) e bond esteri di paesi sviluppati, coprendo il rischio cambio. Con il recente aumento dei rendimenti in Giappone (i trentennali vicino al 2%) e l’impennata del costo per coprire il cambio (dovuta alla maggior volatilità dello yen e ai differenziali di tasso), queste strategie stanno cambiando. Societé Générale ha rilevato che nei primi mesi del 2025 i fondi assicurativi giapponesi sono diventati venditori netti sia di JGB a lunghissima scadenza sia di obbligazioni esterereuters.com. In altri termini, siamo a un punto di svolta: dopo anni in cui hanno sostenuto il mercato dei titoli di Stato domestici comprando sulle scadenze ultra-lunghe, e hanno alimentato i mercati obbligazionari esteri con acquisti ingenti, ora le assicurazioni nipponiche stanno ritirando questa liquiditàreuters.com. Le ragioni sono chiare: i rendimenti domestici ora sono più attraenti e soprattutto le esorbitanti coperture valutarie rendono spesso inutile tenere bond esteri (i guadagni di interesse all’estero vengono erosi dal costo di copertura, che con l’aumento della volatilità yen/dollaro può azzerare il rendimento)reuters.com. SocGen prevede dunque un “ridimensionamento della presenza” degli investitori giapponesi sui mercati obbligazionari globali, il che potrebbe aumentare la volatilità e mettere una certa pressione al rialzo sui rendimenti internazionalireuters.com. Del resto, la scala in gioco è enorme: a fine 2023 gli investitori giapponesi detenevano 2,3 bilioni di dollari in obbligazioni estere, di cui circa 1,4 bilioni solo da parte di fondi pensione e assicurazionireuters.com. Una pur piccola riallocazione di queste somme – ad esempio preferendo titoli domestici a quelli esteri – può avere effetti percepibili sui mercati globali.
In conclusione, l’aumento dei tassi d’interesse rappresenta un banco di prova delicato per il Giappone. Dopo anni di denaro a costo zero, l’economia deve riadattarsi a un contesto più “normale”. Finora la transizione è stata graduale: la BoJ resta accomodante e i tassi nominali giapponesi sono tuttora bassissimi in confronto ad altre nazioni (lo yield decennale attorno a 1%, contro 3-4% di USA ed Eurozona). Ciò dà a banche e imprese un po’ di tempo per adattarsi. Tuttavia, l’equilibrio non è privo di rischi: shock inflattivi maggiori o pressioni di mercato potrebbero costringere la BoJ a scelte più drastiche, mettendo in difficoltà sia il Tesoro (per i costi del debito) sia quegli attori finanziari carichi di titoli a lungo termine. La chiave sarà una normalizzazione ordinata e lenta, accompagnata da rafforzamento patrimoniale degli intermediari e dalla già citata strategia fiscale di medio periodo per governare l’impatto sul debito pubblico.
Problemi Strutturali: Demografia, Deflazione e Produttività
Oltre alle questioni congiunturali, il Giappone da decenni fronteggia sfide strutturali profonde, che ne limitano il potenziale di crescita: il rapido invecchiamento demografico con declino della popolazione, la deflazione persistente (ora in attenuazione, ma dominante per buona parte degli ultimi 30 anni) e la stagnazione della produttività. Questi fattori sono interconnessi e hanno contribuito a plasmare il “decennio perduto” e quelli successivi.
Calo demografico e invecchiamento: Il Giappone sta vivendo un inverno demografico senza precedenti. Dal 2010, anno in cui la popolazione ha raggiunto un picco di circa 128 milioni, è iniziato un calo continuo della popolazione residenteit.wikipedia.org. Nel 2023 la popolazione totale (inclusi i residenti stranieri) era stimata intorno a 124,9 milioniagenzianova.com, confermando il quindicesimo anno consecutivo di declino. Solo nel 2023 il Giappone ha perso circa 861 mila abitanti netti, il calo annuo più forte mai registrato dall’inizio delle rilevazioni ufficiali nel 1968agenzianova.com. Questo saldo negativo è dovuto a un combinato di natalità in caduta libera e mortalità in aumento per via della popolazione anziana sempre più numerosa. I dati del 2023 parlano chiaro: appena 730 mila nascite (nuovo minimo storico), a fronte di ben 1,58 milioni di decessiagenzianova.com. Il tasso di fertilità totale è crollato a circa 1,2 figli per donna, valore lontanissimo dal livello di rimpiazzo generazionale (2,1) e in continuo calo negli ultimi anni (era 1,57 nel 1990, 1,26 nel 2015, 1,20 nel 2023)agenzianova.com. Parallelamente, l’immigrazione rimane molto bassa rispetto ad altre economie avanzate, non compensando i vuoti generazionali (anche se va segnalato che nel 2023, per la prima volta, la popolazione straniera residente ha superato i 3 milioni e il saldo migratorio è tornato leggermente positivo dopo la pandemiaagenzianova.com).
Di conseguenza, il profilo di età della popolazione è drasticamente mutato. Il Giappone ha oggi la società più anziana del mondo: al 2023 circa il 29% dei cittadini ha 65 anni o piùstat.go.jp. Erano solo il 12% nel 1990 e circa il 20% nei primi anni 2000; l’accelerazione dell’invecchiamento è impressionante. In numeri assoluti, ci sono oltre 36 milioni di anziani (65+) in Giapponestat.go.jp, tra cui un numero crescente di ultracentenari. Gli over-65 superano di gran lunga i minori di 15 anni (che sono appena l’11% della popolazione)stat.go.jp. Le proiezioni future destano ulteriore preoccupazione: entro il 2060 gli anziani potrebbero costituire circa il 40% della popolazioneit.wikipedia.org, e la popolazione totale potrebbe ridursi a soli ~87 milioni di abitanti, un terzo in meno rispetto al 2010it.wikipedia.org.
Questa trasformazione demografica ha pesanti implicazioni economiche. In primo luogo, la forza lavoro si restringe ogni anno, frenando il potenziale di crescita: meno lavoratori giovani implicano meno capacità produttiva, a meno di forti guadagni di produttività (che però, come vedremo, non si sono materializzati). La carenza di manodopera già spinge molte imprese ad automatizzare o a offrire impieghi a lavoratori anziani e donne (tradizionalmente meno partecipi del mercato del lavoro in Giappone rispetto ad altri paesi, anche se l’occupazione femminile è aumentata negli ultimi anni). In secondo luogo, aumenta il peso dei costi sociali: con così tanti anziani, la spesa pubblica per pensioni, sanità e assistenza a lungo termine lievita continuamente, aggravando i problemi di bilancio. Il rapporto fra popolazione in età attiva (15-64 anni) e popolazione anziana è passato da oltre 5:1 negli anni ’90 a circa 2:1 oggi, e continuerà a scendere: questo significa che il “carico” sulle spalle dei lavoratori (in termini di tassazione necessaria per sostenere gli anziani) è sempre più elevato. Inoltre, una popolazione in diminuzione tende a ridurre la domanda interna (meno consumatori), esercitando pressioni deflazionistiche di lungo periodo e scoraggiando investimenti in capacità produttiva addizionale. Il Giappone sta cercando di mitigare questi effetti con misure come incentivi alle nascite, prolungamento della vita lavorativa, e una maggiore apertura (seppur controllata) all’immigrazione di lavoratori stranieri, ma invertire la tendenza demografica appare molto difficile.
Deflazione e stagnazione economica: Il termine “decennio perduto” è stato coniato proprio per descrivere gli anni Novanta giapponesi, ma di fatto il Giappone ha sperimentato una crescita anemica e prezzi stagnanti per quasi tre decenni. Dopo lo scoppio della bolla azionaria e immobiliare nel 1990, l’economia giapponese è entrata in una lunga fase di quasi-recessione: il PIL reale ha oscillato intorno all’1% annuo di crescita per molti anni, intervallando brevi riprese a ricadute recessiveblog.moneyfarm.com. Sul finire degli anni ’90 è comparsa la deflazione, ovvero il calo generalizzato dei prezzi al consumo. Già nel 1995 l’inflazione era scesa sotto zero, e successivamente il Giappone ha registrato variazioni dei prezzi negative o prossime allo zero per la maggior parte dei periodi tra il 1999 e il 2005, e di nuovo intorno al 2010lavoce.info. Ad esempio, l’indice dei prezzi al consumo toccò un minimo di -1,6% nel 1999blog.moneyfarm.com. Anche quando l’economia internazionale cresceva, il Giappone rimaneva afflitto da pressioni deflazionistiche: tra il 2000 e il 2013 l’inflazione core (cioè al netto di alimentari freschi) è rimasta costantemente negativa o zero, con l’unica eccezione di brevi fiammate causate da aumenti dell’IVA (che però erano episodi transitori). La deflazione divenne un fenomeno auto-alimentato: aspettative di prezzi stabili o calanti inducevano le famiglie a rimandare gli acquisti e le imprese a posticipare gli investimenti, deprimendo così la domanda aggregata e confermando la stagnazione dei prezzi.
Durante questo periodo, il Giappone ha sperimentato anche forti stress nel sistema bancario (negli anni ’90 molte banche furono zavorrate dai prestiti in sofferenza legati alla bolla scoppiata, il che restrinse il credito disponibileblog.moneyfarm.com) e ha adottato molteplici politiche anticrisi: stimoli fiscali (aumentando il debito, come visto), tassi d’interesse portati a zero già alla fine degli anni ’90, e poi misure non convenzionali pionieristiche (la BoJ fu la prima grande banca centrale ad avviare il quantitative easing nei primi anni 2000). Tali misure hanno evitato un collasso finanziario e una deflazione molto più grave – va detto che la deflazione giapponese era mite in termini percentuali (calo annuo dei prezzi generalmente entro l’1%) e non una spirale devastante – però non sono riuscite a rivitalizzare pienamente l’economia. Anche nei rari periodi di congiuntura favorevole, la crescita giapponese si è mantenuta modesta rispetto ad altri paesi. Ad esempio, nel 2000-2007 il Giappone ha beneficiato del boom globale con crescita media intorno al 1,5-2%, ma poi ha subito la doppia recessione della crisi finanziaria 2008-09 e del terremoto/tsunami del 2011. Negli anni 2010 l’economia ha mostrato segni di vitalità con Abenomics (2013) – c’è stata una ripresa degli investimenti e del mercato azionario, e una leggera risalita dell’inflazione attorno all’1% – ma gli obiettivi di crescita elevata e inflazione al 2% in modo stabile non sono stati centrati. Solo nel 2022-2023, complici fattori esterni, l’inflazione giapponese ha finalmente superato il target (come vedremo più avanti), marcando forse la fine della lunga era deflazionistica. Tuttavia, gli economisti avvertono che il rischio di ricadere in un basso regime inflattivo rimane qualora vengano meno gli stimoli esterni e se non si consolida una crescita dei salari e della domanda internaimf.org.
Produttività stagnante: Un altro tallone d’Achille dell’economia giapponese è la scarsa crescita della produttività, soprattutto quella del lavoro. Nonostante il Giappone sia all’avanguardia in molti settori tecnologici e industriali, la produttività per ora lavorata è tra le più basse delle economie avanzate. Secondo i dati OCSE elaborati dal Japan Productivity Center, il Giappone si colloca al 29º posto su 38 paesi OCSE per produttività del lavoro (dati 2023) e ultimo in assoluto tra i paesi del G7japantimes.co.jpjapantimes.co.jp. In termini numerici, un lavoratore giapponese produce in media circa 56,8 dollari di PIL all’ora (a parità di potere d’acquisto, dato 2023), un livello simile a quello di paesi come Polonia ed Estonia, ma nettamente inferiore rispetto ai principali paesi occidentalijapantimes.co.jpjapantimes.co.jp. Si stima che la produttività oraria giapponese sia circa 60-65% di quella statunitense – un divario che in realtà si è ampliato negli ultimi decenni (era ~70% negli anni ’90)nippon.com. Il Giappone ha mantenuto il primato negativo di produttività nel G7 per oltre 50 anni consecutivi dal 1970 a ogginippon.comnippon.com.
Le ragioni di questa performance deludente sono molteplici. Una è la struttura settoriale: l’industria manifatturiera giapponese è altamente produttiva e competitiva a livello globale, ma rappresenta una quota decrescente dell’economia; i settori dei servizi domestici (commercio, distribuzione, ristorazione, sanità, pubblica amministrazione) sono invece caratterizzati da minore efficienza, poca concorrenza e minori investimenti tecnologici. Ad esempio, la piccola distribuzione al dettaglio tradizionale e alcuni servizi alla persona in Giappone hanno produttività molto bassa se confrontati con gli equivalenti in Europa o USA. Inoltre, fattori socio-culturali e di mercato del lavoro incidono: la pratica dell’impiego a vita e degli avanzamenti per anzianità, pur garantendo stabilità sociale, a volte scoraggia l’allocazione efficiente del capitale umano e l’attrazione di talenti dall’estero. Il basso tasso di digitalizzazione in alcuni ambiti (ad esempio la pubblica amministrazione giapponese fa ancora largo uso di documenti cartacei e fax, una peculiarità spesso citata) e una scarsa partecipazione di capitali esteri e nuove imprese innovative nel mercato interno hanno anch’essi frenato i guadagni di produttività. Infine, la stessa demografia influenza: una popolazione che invecchia comporta meno lavoratori giovani, tipicamente più produttivi e rapidi nell’adottare nuove tecnologie, e più lavoratori anziani con produttività declinante; se non bilanciato dall’automazione, questo porta il livello medio di produttività a ristagnare.
La stagnazione della produttività è preoccupante perché limita la crescita economica potenziale del Giappone a livelli molto bassi. Attualmente, si stima che la crescita potenziale di lungo periodo del Giappone sia attorno allo 0,5% annuoimf.org, contro valori 4-5 volte maggiori di USA o persino la media UE. Ciò significa che, a meno di shock positivi o forti riforme, il Giappone rischia di continuare a crescere poco anche in futuro, il che complica enormemente la gestione del suo debito (un’economia che non cresce vede il denominatore del rapporto debito/PIL stagnante, rendendo più arduo ridurre quel rapporto). Per questo motivo, riforme strutturali per incrementare la produttività sono considerate il “terzo pilastro” necessario (dopo politica fiscale e monetaria) per rivitalizzare il Giappone. Tra queste riforme si annoverano: la deregolamentazione e liberalizzazione di settori protetti, la promozione di startup e innovazione, l’aumento della partecipazione femminile e anziana nel lavoro (già in miglioramento), l’apertura controllata a immigrazione qualificata, e investimenti nell’educazione e digitalizzazione. Alcuni passi sono stati fatti (ad esempio riforme di corporate governance per migliorare l’efficienza delle imprese), ma i progressi sono lenti e c’è ancora molta strada da fare per sbloccare appieno il potenziale produttivo del paese.
Inflazione Recente e Impennata dei Costi
Dopo anni di prezzi stagnanti o in calo, il Giappone ha assistito di recente a un ritorno dell’inflazione, inizialmente importata e poi diffusasi a livello interno. Già nel 2021-2022 i costi dell’energia e delle materie prime importate avevano iniziato a spingere verso l’alto i prezzi al consumo, complice anche una forte deprezzamento dello yen che in quell’epoca scese oltre 140 contro dollaro (rendendo più costose in valuta locale le importazioni di petrolio, gas, grano, etc.). Ma è nel 2022-2023 che l’inflazione giapponese ha raggiunto livelli mai visti da oltre 30 anni: la cosiddetta inflazione core (che esclude gli alimentari freschi) è salita stabilmente sopra il 2% annuo, segnando il conseguimento – per la prima volta in modo non effimero – dell’obiettivo ufficiale della BoJimf.org.
Secondo i dati ufficiali, nel 2023 l’inflazione core si è attestata intorno al 3%, mentre l’inflazione generale è oscillata fra il 3% e il 4% su base annuaimf.orgit.tradingeconomics.com. Ad esempio, nell’aprile 2025 il tasso d’inflazione headline (complessivo) del Giappone era 3,6% su base annuait.tradingeconomics.com – in leggero calo rispetto ai picchi recenti ma ancora elevato – e l’inflazione core ha toccato il 3,5%, il valore più alto da oltre due decenniit.tradingeconomics.com. Questi numeri sono modesti se confrontati con quelli registrati da USA o Europa nel 2022 (quando l’inflazione superò l’8-9%), ma per un paese abituato a variazioni dello 0% sono significativi. L’ultimo periodo paragonabile in Giappone risale agli anni ’80. Cosa ha causato questa svolta? Principalmente fattori di offerta esterni e deprezzamento valutario, più qualche elemento domestico:
Energia: Il Giappone importa la quasi totalità delle sue fonti energetiche (petrolio, gas naturale liquefatto, carbone). Lo shock energetico globale del 2021-2022, esacerbato dalla guerra in Ucraina, ha colpito duramente il paese. I prezzi dell’energia elettrica per le famiglie in Giappone nel 2022 sono saliti a doppia cifra, costringendo il governo a varare sussidi per calmierare le bollette. Nel 2023, con il graduale ritiro di questi sussidi, l’inflazione energetica è tornata ad accelerare: i prezzi dell’elettricità erano in aumento del +13,5% annuo ad aprile 2025 (in rialzo rispetto a +8,7% di marzo, proprio per la riduzione degli aiuti statali), e anche il gas cittadino era in salita (+4,4% annuo)it.tradingeconomics.com. L’energia costosa si trasferisce poi sui costi di produzione di tutti i beni, alimentando pressioni inflazionistiche a catena.
Alimentari e importazioni: L’inflazione ha interessato in modo marcato i generi alimentari e i beni di consumo quotidiano, anch’essi spesso importati. Nel primo semestre 2023 si è visto un aumento generalizzato dei prezzi alimentari di oltre il 7% annuoit.tradingeconomics.com. Un caso notevole è quello del riso, alimento base in Giappone: solitamente il prezzo del riso è stabile o calmierato (essendo prodotto domestico protetto), ma dal 2024 ha subito un’impennata eccezionale, arrivando a costare quasi il doppio rispetto all’anno precedente (+94,8% su base annua ad aprile 2025)it.tradingeconomics.com. Le cause citate sono cattivi raccolti interni (forse per condizioni climatiche avverse) e una crescente domanda dovuta alla ripresa del turismo internazionale post-pandemia, che ha raggiunto livelli record e ha aumentato il consumo di prodotti alimentari domesticiit.tradingeconomics.com. Questo ha portato persino alcuni consumatori ad anticipare acquisti e fare scorte di riso, nel timore di ulteriori rincariilpuntocoldiretti.it. In generale, la dipendenza dalle importazioni alimentari (circa il 60% delle calorie consumate in Giappone proviene dall’estero) rende il paese vulnerabile alle dinamiche inflattive globali: i prezzi di oli vegetali, grano, carne importata sono aumentati significativamente nel 2022-23, trasferendosi sullo scontrino dei supermercati giapponesi. Va segnalato che negli ultimi mesi alcuni di questi aumenti si sono moderati grazie al calo dei prezzi internazionali di petrolio e materie prime alimentari, ma il livello dei prezzi al consumo resta elevato e percepibile per le famiglie.
Inflazione “core-core” e salari: Se si esclude anche l’energia oltre agli alimentari (inflazione core-core), in Giappone l’aumento dei prezzi è più contenuto ma comunque presente. Ciò che preoccupa (o in un certo senso auspicano) i policy maker è la trasmissione agli aumenti salariali. Nel 2023 e 2024, complici anche pressioni governative, si sono visti aumenti salariali contrattuali più alti del solito (circa +3% nel 2023). Salari più alti possono aiutare a sostenere una inflazione “domestica” più sana, legata alla domanda interna (e spezzare definitivamente la mentalità deflattiva), ma se non crescono a sufficienza, il rischio è che l’inflazione attuale eroda il potere d’acquisto reale delle famiglie e freni i consumi. Al momento, i salari reali in Giappone sono leggermente calati, perché l’inflazione ha superato la crescita nominale delle paghe, ma il governo sta spingendo le aziende – forti di profitti elevati negli ultimi anni – a trasferire parte di questi profitti ai dipendenti sotto forma di aumenti stipendiali.
In sintesi, il Giappone si trova ad affrontare un fenomeno per lui insolito: l’inflazione da costi. Mentre la deflazione era figlia di domanda debole e aspettative negative, l’inflazione odierna è originata soprattutto dall’offerta (energia, importazioni) e da fattori globali. Questo tipo di inflazione non è necessariamente un segnale di economia surriscaldata anzi, troppa inflazione da costi può indebolire la crescita, perché impoverisce i consumatori. Per ora, l’economia giapponese ha tenuto: nel 2023 la crescita è stata intorno all’1-2%, aiutata dalle riaperture post-Covid e dalle esportazioni sostenute anche dallo yen . Ma l’inflazione persistente pone la BoJ di fronte a un dilemma: da un lato vorrebbe consolidare un’inflazione moderata dopo anni di deflazione (ed evitare di alzare i tassi troppo presto soffocando la ripresa), dall’altro deve guardare ai rischi che un’inflazione al 3-4% protratta potrebbe comportare (erosione di risparmi, richieste salariali maggiori, potenziale perdita di ancoraggio delle aspettative). Finora la banca centrale ha scelto un approccio molto graduale, segnalando che attenderà evidenze di un’inflazione “di domanda” sostenuta da salari prima di normalizzare in modo significativo la politica monetaria. Questo approccio differenzia il Giappone da altre economie avanzate che hanno reagito con strette decise. Resta il fatto che il contesto di prezzi in rialzo è un nuovo test per la società giapponese e per la sua economia: le abitudini dei consumatori (tradizionalmente molto sensibili ai prezzi) stanno cambiando, e alcune aziende hanno iniziato a trasferire i costi più facilmente sui listini (dopo anni in cui i prezzi erano considerati quasi immodificabili). Il fenomeno include anche curiosità statistiche: per esempio, il prezzo del tipico onigiri (polpetta di riso) nei convenience store, rimasto invariato per molto tempo, è aumentato nel 2022-23, segno tangibile per il cittadino comune della fine della deflazione.
Rischi di Propagazione Globale delle Fragilità Giapponesi
Un tema trasversale ai punti precedenti è il potenziale impatto globale delle vicissitudini economico-finanziarie giapponesi. Il Giappone, pur avendo un’economia relativamente chiusa sul lato commerciale (l’export incide meno del 20% del PIL), è estremamente integrato finanziariamente nel mondo. I suoi problemi interni – debito elevato, mosse della BoJ, carry trade, ecc. – possono dunque trasmettersi all’esterno attraverso vari canali, generando tensioni sui mercati internazionali. Vediamo i principali rischi di contagio:
Flussi finanziari e mercati obbligazionari globali: Come evidenziato, gli investitori giapponesi (banche, assicurazioni, fondi, ma anche investitori retail) detengono somme enormi in titoli esteri. In particolare, il Giappone è il maggior creditore singolo degli Stati Uniti per quanto riguarda il debito pubblico: a marzo 2023 i giapponesi detenevano circa 1.130 miliardi di dollari in Treasury americani, superando di 350 miliardi la quota detenuta dalla Cinareuters.com. Ciò significa che cambiamenti nelle preferenze di portafoglio in Giappone potrebbero avere effetti sui tassi americani. Nel 2022, quando lo yen crollava, in realtà ci fu un effetto stabilizzante perché gli investitori nipponici non hanno smobilizzato in massa i Treasury (anzi, la BoJ ha continuato a tenere i tassi giapponesi bassi e molti investitori giapponesi hanno mantenuto le posizioni estere). Tuttavia, nel 2023-2024 la tendenza si è invertita: con l’aumento dei rendimenti domestici e l’incertezza sul dollaro, i giapponesi sono divenuti venditori netti di bond esteri. SocGen ha stimato che nel 2024 gli investitori giapponesi abbiano venduto circa 45 miliardi di dollari di obbligazioni europee nettireuters.com, e in generale stiano riducendo la loro “presenza” nei mercati obbligazionari stranierireuters.com. Anche un ritiro marginale di questo enorme stock di investimento può influire: secondo Reuters, in un periodo di mercati nervosi, “persino un disimpegno marginale può intaccare il sentiment dei mercati sovrani”reuters.com. In altre parole, se i giapponesi comprano meno titoli esteri o ne vendono, i rendimenti in quei mercati potrebbero salire più di quanto avverrebbe altrimenti, aggiungendo pressione su costi di finanziamento di governi e imprese a livello globale. Il “red flag” segnalato nel titolo di un’analisi Reuters recente è proprio questo: lo spostamento di portafoglio in atto in Giappone è un campanello d’allarme per gli USA e gli altri paesi debitorireuters.comreuters.com. Per gli Stati Uniti, che hanno un deficit cronico e dipendono da flussi di capitale esteri, una minore domanda dal Giappone (suo maggiore creditore estero) potrebbe significare dover offrire tassi più alti ai Treasuries per attrarre altri compratorireuters.comreuters.com. Siamo ancora in ambito di ipotesi moderate – l’effetto sarebbe per ora marginale, visto anche il gigantesco mercato USA da 28 trilioni di dollarireuters.com – ma comunque non trascurabile.
Shock valutari e credit crunch nei paesi emergenti: Il carry trade in yen, come discusso, lega le sorti dello yen a quelle di diverse valute emergenti e di asset rischiosi. Una repentina rivalutazione dello yen (come quella di agosto 2024) può generare shock nei mercati valutari: nel 2024, ad esempio, si è visto il peso messicano deprezzarsi rapidamente in poche sessioni quando gli investitori hanno iniziato a chiudere posizioni di carry tradeamro-asia.orgamro-asia.org. Per alcuni paesi emergenti indebitati in valuta estera o dipendenti da afflussi di portafoglio, movimenti del genere possono innescare crisi finanziarie. Si pensi a uno scenario in cui la BoJ alzi i tassi più del previsto: molti investitori potrebbero ritirare capitali dai mercati emergenti per riportarli su asset in yen (ora più redditizi e meno rischiosi dal punto di vista valutario). Ciò potrebbe provocare brusche fughe di capitali da economie fragili, costringendo queste ultime ad alzare a loro volta i tassi o intervenire sulle valute, fino a potenziali default o crisi bancarie locali se il flusso in uscita fosse consistente. Un parallelo storico parziale fu la crisi asiatica del 1997: un fattore che contribuì a quella crisi fu l’aumento dei tassi USA e il rafforzamento dello yen rispetto alle valute del Sud-Est asiatico, che rese oneroso per quei paesi mantenere i peg e ripagare i debiti in yen. O ancora, nel 2008, durante la Grande Crisi Finanziaria, lo yen si apprezzò fortemente (flight-to-quality) e questo amplificò le difficoltà per alcuni investitori e hedge fund che erano pesantemente impegnati in carry trade, contribuendo all’acuirsi del credit crunch globale. Oggi il mondo emergente ha fondamentali mediamente migliori, ma alcuni paesi ad alto debito e forte componente di investimenti esteri (ad es. Turchia, Argentina, Sud Africa) potrebbero soffrire in caso di disordine nei flussi legati allo yen.
Stabilità delle istituzioni finanziarie internazionali: Le grandi banche giapponesi hanno filiali e attività in tutto il mondo; assicuratori e fondi giapponesi sono investitori chiave in molti mercati (dai titoli di stato americani ai corporate bond europei, fino a investimenti diretti e immobiliari). Una crisi bancaria in Giappone – sebbene appaia poco probabile allo stato attuale, dato l’elevato livello di capitale e l’intervento pronto delle autorità – avrebbe ripercussioni di fiducia sui mercati globali. Inoltre, se istituzioni giapponesi si trovassero a corto di liquidità o capitali, potrebbero rimpatriare investimenti esteri, vendendo asset all’estero e causando pressioni al ribasso sui loro prezzi. Ad esempio, se dovessero fronteggiare perdite, potrebbero liquidare rapidamente asset come i Collateralized Loan Obligations (CLO) di cui sono grandi detentori, o altri titoli esteri, creando tensioni in quelle nicchie di mercato (alcuni osservatori notano già l’elevata esposizione di Norinchukin e altri giapponesi ai CLO USAreuters.com). In aggiunta, c’è un canale valutario: in caso di crisi, le istituzioni giapponesi potrebbero riportare capitali in patria convertendoli in yen, rafforzando lo yen e mettendo a dura prova chi ha debiti in yen all’estero.
Implicazioni geopolitiche e di mercato di lungo periodo: Un Giappone finanziariamente fragile potrebbe essere meno propenso – o meno in grado – di fornire supporto finanziario internazionale. Ad esempio, il Giappone è un importante contributore ai fondi multilaterali e agli aiuti bilaterali: se dovesse affrontare una crisi fiscale interna, potrebbe ridurre tali flussi, colpendo paesi beneficiari. Sul fronte commerciale, se uno shock in Giappone porta a un forte deprezzamento dello yen per via di politiche monetarie ultra-espansive (uno scenario di “dominanza fiscale” estrema in cui la BoJ monetizza il debito a oltranza), si potrebbero innescare reazioni competitive: una moneta giapponese molto debole potrebbe penalizzare i concorrenti commerciali in Asia ed Europa, potenzialmente alimentando tensioni valutarie. Viceversa, se il Giappone subisse una crisi di fiducia sul debito e lo yen si impennasse, la competitività delle sue esportazioni crollerebbe e i produttori di auto, elettronica, ecc. giapponesi potrebbero ridurre la propria presenza globale, lasciando spazi ad altri attori (Corea, Cina, ecc.). Entrambi gli scenari avrebbero ricadute sull’economia globale e sugli equilibri di mercato.
Tutti questi canali di contagio fanno capire perché le fragilità del Giappone siano tenute sotto osservazione a livello internazionale. Organizzazioni come il FMI, la Banca Mondiale, la BRI discutono regolarmente dei rischi giapponesi nei loro rapporti. Per ora, l’opinione prevalente è che il Giappone disponga di strumenti e caratteristiche che mitigano il rischio immediato (ad esempio: debito detenuto in stragrande maggioranza da investitori domestici e dalla BoJ stessa; sistema finanziario ancora stabile; riserve valutarie ampie per gestire turbolenze sullo yen; governo solido e istituzioni credibili). Tuttavia, si riconosce che il percorso attuale non è sostenibile in eterno e un aggiustamento è inevitabile. La speranza è che avvenga in modo graduale e ordinato. In caso contrario, uno shock proveniente dalla terza economia mondiale avrebbe conseguenze difficilmente prevedibili sui mercati globali, data l’epoca di alta interconnessione in cui viviamo.
