Il guinzaglio invisibile

Un essere umano cammina ipnotizzato tra grattacieli di carta di credito e schermi di borsa, mentre una mano invisibile fatta di banconote lo tiene legato al collo. Un simbolo disturbante del controllo finanziario sulle coscienze.

Lorenzo Serio

7/4/202520 min read

L’umanità al guinzaglio: finanza, poteri forti e controllo occulto

Caro lettore, ora facciamo una lieve introduzione e poi andiamo al sodo, parola da trader: Da sempre esistono élite che guidano i destini dei popoli da dietro le quinte. Se un tempo il potere si esercitava con la spada o con il diritto divino, nel mondo moderno ha assunto forme più subdole ma altrettanto pervasive. Banche e istituzioni finanziarie sono divenute i nuovi troni da cui una ristretta cerchia di potenti governa le decisioni collettive. Attraverso il controllo del denaro, del debito e persino delle idee, questi poteri forti hanno tenuto intere società “al guinzaglio”, spesso senza che le masse se ne rendessero conto. In questo articolo esploriamo i meccanismi nascosti con cui la finanza globale e le élite sovranazionali esercitano il loro dominio sull’umanità, analizzando anche gli strumenti psicologici usati per mantenere le persone sottomesse in modo quasi invisibile.

Origini antiche di un potere nascosto (brevi cenni storici)

Le dinamiche di controllo dall’alto non sono nate ieri: il concetto di una minoranza che controlla la maggioranza affonda le radici nella storia. Già nei vecchi imperi e nei regni assoluti, piccole caste – fossero faraoni e sacerdoti, imperatori e nobili, o mercanti e usurai – influenzavano le scelte dei popoli. Tuttavia, l’arma del controllo si è evoluta. Se nell’antichità era la forza bruta o la religione a tenere a bada le masse, con l’avvento dell’era moderna un nuovo strumento ha sorpassato tutti gli altri: il denaro. Dal Rinascimento in poi, con la nascita delle prime grandi banche (si pensi ai Medici in Italia o ai banchieri fiamminghi), la finanza è diventata il motore silenzioso della politica. Monarchi e governi dovevano affidarsi ai prestiti dei banchieri per condurre guerre o grandiosi progetti, indebitandosi e cedendo porzioni di sovranità economica. Un proverbio mai scritto nei libri di storia recita che “chi controlla il tesoro, controlla il regno”: mai come oggi questa massima risulta vera.

Nel corso dei secoli, dunque, le leve di comando sono passate dalle mani visibili di re e dittatori a quelle meno visibili di dinastie finanziarie e grandi istituti di credito. Esempi emblematici abbondano: dal ruolo dei banchieri nell’Inghilterra post-medievale fino ai finanzieri che, tra ‘800 e ‘900, determinarono crisi e boom economici dietro le quinte. Un caso leggendario (a metà tra storia e mito) narra di come un famoso banchiere europeo del XIX secolo sfruttò con astuzia le notizie sulla battaglia di Waterloo per speculare sui titoli di Stato britannici, accrescendo enormemente la propria ricchezza e influenza. Che l’episodio sia avvolto nella leggenda poco importa: incarna la realtà di fondo che il vero potere spesso agisce in ombra, usando l’informazione e il denaro come armi. Oggi questa logica antica prosegue su scala globale, più sofisticata ma altrettanto efficace.

Le élite finanziarie al comando del mondo

In epoca contemporanea, il potere finanziario globale si è concentrato come mai prima. Viviamo in un sistema economico dove pochi attori controllano ricchezze immense e leve decisionali fondamentali. Organizzazioni internazionali e gruppi di studio hanno evidenziato come una minuscola percentuale della popolazione mondiale detenga una fetta enorme del patrimonio globale. Basti pensare che, negli ultimi anni, diverse analisi hanno mostrato dati sconcertanti: poche decine di individui ultra-ricchi possiedono da soli una percentuale di ricchezza pari a quella detenuta da miliardi di persone comuni. Questo significa che il potere reale è concentrato in una oligarchia ristretta, una sorta di aristocrazia del denaro che trascende confini nazionali.

Non parliamo di teorie astratte, ma di fatti osservabili: le famiglie bancarie e finanziarie più influenti trasmettono dinasticamente il loro potere di generazione in generazione, al riparo da qualsiasi controllo democratico. Mentre i governi eletti cambiano ogni pochi anni, questi clan finanziari e le istituzioni a loro legate permangono costanti, muovendo enormi capitali e influenzando mercati e governi da una posizione privilegiata e permanente. In sostanza, l’economia globale somiglia a una scacchiera in cui re e regine non siedono nei parlamenti, ma nei consigli di amministrazione di banche d’investimento, fondi speculativi, banche centrali e holding internazionali.

Questa élite finanziaria opera dietro le quinte, spesso celata da un velo di tecnocrazia. Si presenta come composta da “tecnici”, banchieri centrali, grandi investitori, esperti di mercati: figure apparentemente neutre e competenti che agiscono “per il bene della stabilità economica”. In realtà, con la scusa della complessità tecnica, queste persone prendono decisioni cruciali senza alcun mandato popolare. Un esempio lampante è il potere delle banche centrali indipendenti: istituzioni come la Federal Reserve negli Stati Uniti o la Banca Centrale Europea nell’Eurozona decidono quanta moneta stampare, fissano tassi d’interesse, salvano o affossano banche private – influenzando la vita di centinaia di milioni di cittadini – senza che questi ultimi possano dire una sola parola in merito. L’indipendenza delle banche centrali, presentata come garanzia di neutralità, di fatto le rende sottratte al controllo democratico e spesso allineate agli interessi del sistema finanziario privato.

Nell’ombra di questa architettura di potere troviamo anche club esclusivi e think-tank internazionali dove le élite finanziarie si incontrano per accordarsi sulle strategie globali. Non sono scenari da romanzo: eventi come le riunioni riservate del Gruppo Bilderberg o della Commissione Trilaterale, o i sontuosi forum come il World Economic Forum di Davos, riuniscono regolarmente banchieri, miliardari, vertici di multinazionali e politici “affidabili” in contesti lontani dai riflettori. Dietro porte chiuse, queste reti d’influenza discutono e spesso decidono linee d’azione economica e politica che poi i governi porteranno avanti ufficialmente. Non c’è bisogno di complotti fantasiosi: basta osservare come molte idee dominanti – dalla globalizzazione finanziaria alle politiche di austerità – siano state promosse prima in questi consessi elitari e poi attuate a cascata nelle nazioni di tutto il mondo.

Il debito come arma di dominio

Tra i vari strumenti di controllo esercitati dai poteri finanziari, il debito occupa un posto centrale. L’indebitamento di massa – tanto dei singoli cittadini quanto degli Stati – è forse il guinzaglio più robusto con cui tenere la società obbediente. Quando una persona è oppressa dai debiti, è costretta a lavorare incessantemente solo per ripagare interessi, ha paura di perdere quel poco che ha e difficilmente si ribella al sistema. Allo stesso modo, uno Stato pesantemente indebitato con banche e mercati internazionali vede la propria autonomia di decisione drasticamente limitata: deve sottostare ai diktat dei creditori, tagliare spese sociali, aumentare tasse, e in generale modellare le proprie politiche per placare “i mercati”. Di fatto, il debito trasforma nazioni sovrane in sorvegliati speciali, con i governi costretti a seguire l’agenda dettata da poteri economici esterni.

Questa non è retorica, è la cronaca degli ultimi decenni. Molti ricorderanno come la crisi del debito ha colpito vari Paesi: dall’America Latina negli anni ’80, all’Africa strangolata dai debiti verso il Fondo Monetario Internazionale (FMI), fino alla recente crisi dell’eurozona. Ogni volta il copione è simile: si concedono prestiti facili in certe fasi, i Paesi si indebitano, poi scatta la trappola del debito. A quel punto entrano in gioco le grandi banche d’affari, il FMI, la Banca Mondiale, che in cambio di aiuti finanziari dettano politiche lacrime e sangue (tagli a pensioni, privatizzazioni forzate, svendita di beni pubblici, riforme “strutturali” impopolari). È accaduto in modo eclatante alla Grecia durante la crisi iniziata nel 2009: Atene, schiacciata da un debito impagabile, ha dovuto cedere a condizioni rigidissime impostele dalla “troika” (FMI, Banca Centrale Europea e Commissione UE) perdendo di fatto la propria sovranità economica. Scelte fondamentali per il benessere dei cittadini greci sono state prese da tecnocrati stranieri e creditori internazionali, mentre i greci venivano posti davanti all’aut aut: obbedire, oppure andare in bancarotta totale. Questo esempio estremo illustra la potenza disciplinare del debito: è un cappio che può stringersi fino a togliere il respiro a un popolo, costringendolo a seguire il volere di chi detiene l’altra estremità della corda.

Ma non pensiamo che ciò riguardi solo Paesi piccoli o in difficoltà. Anche le grandi nazioni occidentali vivono sotto la minaccia costante dei mercati finanziari. L’Italia, ad esempio, ha un debito pubblico enorme; ciò la rende vulnerabile agli “umori” di investitori e banche estere. Basta un rialzo dello spread (il differenziale di interesse sui titoli di Stato) a mettere in ginocchio i conti pubblici e a mettere pressione al governo. Non è un caso se negli ultimi anni governi sgraditi ai poteri finanziari sono stati fatti cadere o commissariati proprio durante turbolenze finanziarie. Nel 2011, il governo italiano dell’epoca dovette dimettersi in fretta e furia sotto l’incalzare di una crisi dello spread che molti ritengono sia stata alimentata ad arte per ottenere un cambio di leadership più conforme ai desiderata dell’Unione Europea e dei mercati. Episodi simili sono accaduti in altri paesi: quando un leader eletto prova a deviare dalla linea gradita alla finanza globale, spesso viene punito tramite attacchi speculativi alla moneta o ai titoli di Stato del suo Paese. In sintesi, il debito è usato come leva di ricatto: tu governo fai ciò che vogliono i creditori, oppure la tua economia verrà affondata causando il tuo tracollo politico.

A livello globale, il sistema della moneta e del credito è strutturato in modo da creare sempre nuovo debito e tenere le nazioni in una sorta di schiavitù finanziaria permanente. La maggior parte del denaro circolante oggi non è costituita da monete e banconote reali, ma da moneta creata dalle banche commerciali sotto forma di prestiti: quando una banca concede un mutuo o un finanziamento, crea denaro dal nulla con un semplice gioco di scritture contabili, denaro che il debitore dovrà restituire con gli interessi. Il problema è che gli interessi non vengono creati in quel processo: ciò significa che, collettivamente, c’è sempre più debito da restituire rispetto alla quantità di denaro realmente in circolazione. Questo meccanismo fa sì che il debito complessivo non possa mai essere ripagato del tutto: qualcuno resterà sempre indebitato, dovendo contrarre nuovi prestiti in un circolo vizioso senza fine. È un debito inestinguibile, un meccanismo perfetto per mantenere i popoli sotto scacco. Gran parte delle tasse pagate dai cittadini nelle nazioni indebitate serve semplicemente a pagare gli interessi sul debito pubblico a chi detiene i titoli (spesso grandi banche e fondi). In pratica lavoriamo tutti, almeno in parte, per arricchire i rentier della finanza.

Organizzazioni sovranazionali e sovvertimento della sovranità

Parallelamente al dominio esercitato attraverso il debito, i poteri forti finanziari hanno costruito negli ultimi decenni un intreccio di istituzioni sovranazionali che progressivamente hanno svuotato l’autorità degli Stati nazionali. Formalmente queste organizzazioni vengono presentate come strumenti di cooperazione e progresso internazionale, ma di fatto spesso rispondono più agli interessi delle élite globali che non a quelli dei popoli.

Un esempio chiave è il ruolo delle grandi istituzioni economiche mondiali: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale sono ufficialmente agenzie dell’ONU per aiutare i Paesi in difficoltà e promuovere lo sviluppo. Tuttavia, da decenni impongono condizioni durissime ai Paesi che ricevono i loro prestiti, favorendo le aperture ai capitali esteri, la privatizzazione di settori pubblici e altre misure che spesso avvantaggiano gli investitori internazionali a scapito delle popolazioni locali. Molti economisti critici hanno sottolineato come il cosiddetto “Washington Consensus” – ovvero il pacchetto di politiche liberiste promosso da FMI, Banca Mondiale e Tesoro USA – abbia in realtà giovato soprattutto alle banche e alle multinazionali occidentali, lasciando i Paesi debitori in una nuova forma di colonialismo finanziario.

In Europa, abbiamo visto un processo simile con la costruzione dell’Unione Europea e, in particolare, con l’introduzione della moneta unica, l’Euro. L’UE è nata con nobili intenti di pace e cooperazione, ma col tempo si è trasformata in un apparato burocratico-finanziario dove le decisioni cruciali vengono prese da tecnocrati non eletti (come i commissari europei o i vertici della BCE) e da consigli ristretti in cui le lobby economiche hanno voce forte. Il risultato? I parlamenti nazionali – espressione della volontà popolare – sono stati vincolati da regole sovranazionali (trattati europei, parametri di bilancio, vincoli commerciali) che limitano drasticamente la loro libertà di azione. La sovranità popolare viene compressa, mentre prevalgono le direttive pensate per compiacere “i mercati”. Alcuni commentatori non esitano a definire l’euro “un guinzaglio finanziario”: vincola i Paesi a una moneta che non possono controllare, impedendo svalutazioni o politiche monetarie autonome, e li costringe a una disciplina imposta dall’alto (spesso di marca tedesca, data la potenza economica della Germania dentro l’eurozona). In questo modo, gli Stati sono come cani tenuti al guinzaglio: non possono correre liberamente, perché un brusco strattone (ad esempio uno spread che sale, o una procedura d’infrazione per deficit) li rimette subito in riga.

Accanto alle istituzioni ufficiali, esistono poi organismi meno noti ma estremamente influenti. Uno di questi è la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), con sede a Basilea. Poco conosciuta al grande pubblico, la BRI è essenzialmente la “banca centrale delle banche centrali”. È un club esclusivo dove i governatori delle principali banche centrali mondiali si incontrano regolarmente a porte chiuse per coordinare le politiche monetarie globali. La particolarità inquietante? La BRI gode di uno status di extraterritorialità e segretezza totale: nessun governo può ficcare il naso nelle sue riunioni, i suoi membri e locali hanno immunità legale, e non esistono verbali pubblici dei loro incontri. Insomma, un’istituzione opaca ed elitista per ammissione degli stessi osservatori, all’interno della quale un ristretto gruppo di banchieri può discutere e orientare decisioni che poi influenzeranno l’economia mondiale, il tutto lontano da ogni controllo democratico. Ufficialmente, la BRI non impone leggi, ma il solo fatto che i padroni della moneta globale si riuniscano in gran segreto desta legittimi sospetti: chi ci assicura che non stiano “accordandosi” sulle nostre teste? In fondo, dopo ogni crisi globale (dal crollo del 2008 alla recente pandemia) sono proprio le banche centrali, concertate tra loro, ad aver varato misure straordinarie di cui pochissimi comprendono appieno le implicazioni a lungo termine. È ragionevole credere che dietro la facciata della cooperazione tecnica si nasconda una cabina di regia occulta, orientata a preservare gli interessi del grande capitale finanziario mondiale.

Dentro questi meccanismi sovranazionali, i governi eletti democraticamente scivolano in secondo piano. Sempre più spesso assistiamo a decisioni fondamentali prese su scala internazionale senza trasparenza: trattati commerciali negoziati in segreto, standard finanziari decisi da comitati tecnici, interventi militari autorizzati da alleanze o enti internazionali. Al cittadino comune resta solo di subire le conseguenze di scelte partorite lontano dal suo sguardo e dal suo voto. Lo Stato-nazione, che per secoli è stato il contenitore della sovranità popolare e dei diritti dei cittadini, viene gradualmente svuotato dall’interno: i parlamenti votano leggi scritte sotto dettatura esterna, le politiche economiche vengono “vincolate” dall’alto, e in caso di conflitto tra volere popolare e interessi finanziari internazionali è quasi sempre il secondo a prevalere.

Marionette politiche e piani nell’ombra

Viene spontanea una domanda: com’è possibile tutto questo, se viviamo in società formalmente libere e democratiche? La risposta è che la democrazia esiste solo al livello più basso, quello visibile, mentre a un livello superiore i giochi sono già fatti. Immaginiamo il potere come organizzato su due livelli distinti. Nel livello inferiore, quello che il pubblico vede, ci sono i politici eletti, i partiti che si combattono in Parlamento, i leader che fanno promesse agli elettori. Questo è il teatro della politica convenzionale, dove però – salvo rare eccezioni – non si decide nulla di davvero fondamentale, ma si gestisce il giorno per giorno e si curano le apparenze. Al livello superiore, dietro le quinte, troviamo invece la sfera tecno-finanziaria di cui abbiamo parlato: banchieri, grandi industriali, dirigenti di organismi internazionali, aristocrazie economiche che non sono sottoposte ad alcun voto popolare. Questo livello superiore non deve rispondere a elettori, non appare quasi mai nei talk show, e può pianificare strategie a lungo termine a porte chiuse. È un vero e proprio “stato ombra”, uno Stato nello Stato: annidato dentro le nostre stesse società democratiche, ma sottratto alle regole democratiche.

I sociologi e politologi lo avevano intuito già un secolo fa. In Italia pensatori come Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels descrissero l’inevitabilità dell’oligarchia: anche nelle democrazie, sostenevano, finisce sempre che un’élite ristretta prende il controllo effettivo delle istituzioni e perpetua se stessa. Negli USA, il sociologo C. Wright Mills negli anni ’50 parlò di “Power Elite” riferendosi al connubio tra grandi imprese, vertici militari e politici cooptati che realmente guidava la nazione, al di là dell’apparenza democratica. Queste analisi non erano teorie del complotto, ma lucidissime descrizioni della realtà del potere.

L’élite odierna – finanziaria e transnazionale – ha affinato all’estremo questi metodi. Manda avanti “teste di legno”, ovvero politici di livello inferiore che recitano la parte di leader, mentre loro tirano i fili da dietro. Se un governo o un ministro risulta sgradito, hanno vari modi per neutralizzarlo: campagne mediatiche denigratorie, inchieste giudiziarie opportunamente incentivate, pressioni economiche. Gli esempi concreti abbondano. Leader che hanno provato a opporsi seriamente ai dettami dell’alta finanza globale sono stati o estromessi rapidamente oppure isolati e indeboliti. Quando la Grecia nel 2015 votò contro l’austerità, i suoi rappresentanti (il premier Tsipras e il ministro delle finanze Varoufakis) furono messi spalle al muro dall’UE e dalle banche, costretti a capitolare e abbandonare qualsiasi velleità di ribellione. Qualche anno prima, un potente capo di Stato del Mediterraneo, Mu’ammar Gheddafi, ventilò l’idea di creare una valuta panafricana sganciata dal dollaro ed euro: nel giro di poco finì rovesciato e ucciso in un’intervento militare internazionale, lasciando il suo Paese (la Libia) nel caos ma ben inserito nei giochi petroliferi controllati dall’Occidente. Anche in ambiti più vicini a noi, figure politiche considerate “fuori dal coro” rispetto all’agenda neoliberale hanno subito trattamenti duri: il già citato Berlusconi in Italia fu silurato dall’allora establishment UE durante la crisi dei debiti, mentre altrove si sono visti outsider politici emergere e poi essere rapidamente ridimensionati o cooptati (Renzi in Italia e Macron in Francia sono esempi di leader apparsi quasi dal nulla con l’appoggio esplicito dei circoli finanziari europei, diventando di fatto portavoce di quell’élite). Insomma, i leader politici sono spesso pedine sostituibili: quando servono volti nuovi, il sistema li promuove velocemente grazie ai media compiacenti; quando qualcuno sgarra, scattano “incidenti” che ne troncano la carriera.

Dietro questi avvicendamenti, il disegno resta costante. Le agende politiche di lungo termine – come l’integrazione economica globale, le riforme pro-mercato, le strategie geopolitiche per l’energia – vengono portate avanti indipendentemente da chi sieda al governo in un dato momento. Cambiano i musicisti, ma la partitura la scrive sempre l’élite. Anzi, l’alternanza di governi di destra e sinistra è spesso usata come valvola di sfogo: si illude il popolo che ci sia scelta e cambiamento, mentre i parametri fondamentali (bilancio, trattati, alleanze economiche) rimangono invariati. Qualche politico sincero che provi a “impuntarsi” realmente per l’interesse popolare può resistere un po’, ma alla fine viene neutralizzato o inglobato. Il messaggio è chiaro: nessuno, neppure eletto da milioni di persone, può opporsi impunemente ai veri padroni dell’economia. Di fronte ai poteri forti, la democrazia elettiva appare debole e addomesticata.

La manipolazione psicologica delle masse

Finora abbiamo esaminato strumenti strutturali – denaro, debito, istituzioni – con cui i poteri forti tengono l’umanità al guinzaglio. Ma c’è un altro livello, più sottile e profondamente insidioso: il controllo delle menti e del consenso. Un dominio duraturo non può basarsi solo sulla coercizione esterna; deve entrare nella psiche collettiva, plasmare i valori, i desideri e le paure delle persone, così che queste finiscano per accettare come “naturale” la propria subordinazione. Ed è esattamente ciò che avviene attraverso un uso sapiente di strumenti psicologici e mediatici.

Propaganda e disinformazione sono le armi classiche. Ogni potere, per mantenersi, mente ai sudditi o quantomeno distorce la realtà a proprio vantaggio – lo sapeva bene già Machiavelli nel XVI secolo, quando descriveva nei suoi scritti come i principi dovessero usare inganno, simulazione e “falsi scopi” per governare efficacemente. Oggi, però, la scala è globale e i mezzi tecnologici di persuasione di massa sono immensamente più potenti di un tempo. Un piccolo gruppo di conglomerati controlla la gran parte dei media mainstream: televisioni, giornali, network sociali. Ciò significa che le notizie e le informazioni che raggiungono il cittadino comune sono filtrate e selezionate in modo da sostenere la narrazione utile ai poteri costituiti. I temi scomodi vengono insabbiati o ridicolizzati, mentre quelli favorevoli all’agenda dominante sono martellati quotidianamente. In pratica, si crea un “pensiero unico”: un quadro di idee considerato accettabile e “giusto”, al di fuori del quale ogni altro punto di vista viene bollato come eresia, complottismo o follia. Questa uniformità ideologica morbida si ottiene non con la censura brutale (anche se in alcuni casi si arriva anche a quella), ma col monopolio culturale: le voci critiche sono confinate ai margini, sommerse da un rumore di fondo di messaggi rassicuranti che spingono all’obbedienza.

Un esempio evidente è come i media presentano le scelte economiche: da anni ci sentiamo ripetere che “non c’è alternativa” a certe politiche (tagli al welfare, globalizzazione dei mercati, salvataggi bancari con soldi pubblici). Chiunque osi mettere in discussione questi dogmi viene dipinto come incompetente o pericoloso. Così facendo, si spegne sul nascere ogni dibattito genuino. Il pubblico, bombardato da esperti in TV e titoli di giornale allarmistici, finisce per credere che effettivamente quelle misure impopolari siano l’unica via possibile. Viene instillata la convinzione che i problemi siano troppo complessi per l’uomo comune, che bisogna fidarsi dei “tecnici” – guarda caso, gli stessi che appartengono all’élite economica. È una persuasione psicologica di massa, quasi impercettibile perché non porta divise né minaccia sanzioni dirette, ma spinge la gente all’auto-censura e all’accettazione passiva.

Accanto alla propaganda diretta, vi sono strategie di manipolazione più sottili. Il controllo psicologico dei popoli passa anche attraverso la gestione calibrata di paure collettive e crisi. La storia recente è piena di esempi in cui situazioni di emergenza (vere o enfatizzate) sono state sfruttate per fare accettare misure che altrimenti sarebbero impensabili. Dopo attacchi terroristici o shock economici, si è spesso visto l’opinione pubblica, comprensibilmente spaventata, consegnare più potere alle autorità in cambio di promesse di sicurezza. Legislazioni speciali, restrizioni delle libertà civili, controlli più stringenti… tutti accettati perché “siamo in emergenza”. La paura è un potentissimo strumento di controllo: un popolo impaurito cerca protezione, e chi detiene il potere può presentarsi come salvatore, esigendo però in cambio obbedienza e rinunce. Questo schema è talmente efficace che alcuni poteri non si limitano ad aspettare le crisi, ma possono crearle o sfruttarle intenzionalmente. Si parla in questi casi di “strategia della tensione”: mantenere la società in un costante stato di allarme (per terrorismo, guerre, virus, criminalità, ecc.) così da giustificare uno stato di sorveglianza permanente e distrarre dai problemi reali e strutturali. Mentre la gente vive angosciata dall’ultimo nemico pubblico (che sia un nemico esterno o un’emergenza sanitaria poco importa), le élite possono consolidare le loro posizioni con minore opposizione.

Un altro meccanismo psicologico è la distrazione e l’edonismo pilotato. Il potere finanziario globalizzato non vuole necessariamente cittadini costantemente terrorizzati; vuole soprattutto cittadini passivi e disimpegnati. E quale modo migliore per ottenerli se non sommergerli di intrattenimento triviale, gadget consumistici e falsi bisogni? Il cosiddetto “bread and circuses” (pane e circo) dei romani è oggi declinato in chiave moderna: un flusso infinito di spettacoli televisivi, social network progettati per creare dipendenza, pubblicità che instillano desideri artificiali, mode effimere da inseguire. Tutto questo tiene le persone occupate a consumare e distrarsi, anziché pensare criticamente o partecipare attivamente alla vita pubblica. Nel frattempo, la precarietà economica di molti li costringe comunque a lavorare sempre di più (magari in condizioni di stress e competitività elevata) per permettersi il tenore di vita propagandato come “successo”. Il risultato è una popolazione stanca, confusa e frammentata: troppo impegnata a sbarcare il lunario o a inseguire svaghi vuoti, per accorgersi del filo sottile che la lega al guinzaglio.

Dal punto di vista psicologico, poi, il sistema coltiva anche il senso di impotenza e di colpa nel singolo individuo. Se qualcosa non va (disoccupazione, crisi climatiche, tensioni sociali), i media e i discorsi pubblici spesso incolpano genericamente “l’umanità” o addirittura i comportamenti individuali, distogliendo l’attenzione dalle responsabilità delle grandi strutture di potere. Ad esempio, di fronte a disastri finanziari causati dall’avidità di pochi speculatori, si è detto che “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” facendo sentire i cittadini comuni in colpa e quindi più disposti a fare sacrifici. Oppure si esorta la gente a “stringere la cinghia” in nome dell’economia, inculcando l’idea che la sofferenza attuale sia inevitabile e dovuta quasi a un destino impersonale (il mercato, la concorrenza globale, ecc.), quando invece è frutto di scelte precise di chi comanda. Tutto questo ha un impatto profondo sulla psiche collettiva: una società colpevolizzata e rassegnata non trova la forza di reagire, anzi, può arrivare a difendere il sistema che la opprime, perché teme che ogni cambiamento potrebbe essere peggiore.

Verso un nuovo ordine tecnocratico: il controllo totale?

All’orizzonte, i poteri forti intravedono addirittura un’evoluzione del loro controllo: dall’attuale dominio finanziario e psicologico, si sta passando gradualmente a un controllo tecnologico e bio-politico ancora più penetrante. Se il Novecento è stato il secolo dell’indebitamento di massa, il ventunesimo secolo potrebbe essere ricordato come quello della sorveglianza di massa e del controllo digitale. Le nuove tecnologie offrono infatti strumenti senza precedenti per monitorare, influenzare e vincolare gli esseri umani.

Pensiamo alla rivoluzione digitale: ogni nostra transazione, comunicazione, spostamento lascia una traccia elettronica. Le grandi aziende tech (che sono ormai parte integrante dell’élite globale, strettamente intrecciate con la finanza) raccolgono e analizzano quantità immense di dati personali. In un contesto del genere, diventa facile per chi sta al potere sfruttare queste informazioni per prevedere e guidare il comportamento delle masse. Già oggi algoritmi sofisticati determinano quali notizie appaiono sui nostri social media (influenzando opinioni e umori), quali annunci pubblicitari vediamo, quali opportunità ci vengono offerte o negate (pensiamo ai sistemi di rating creditizio o persino di “affidabilità sociale” in sperimentazione in certi Paesi). In futuro, con l’intelligenza artificiale ancora più sviluppata, questo potere predittivo e manipolativo potrebbe aumentare esponenzialmente.

Un esempio che incute timore è quello delle monete digitali centralizzate. Diverse banche centrali (compresa la BCE e la Federal Reserve) stanno studiando l’introduzione di valute digitali ufficiali – una sorta di versione elettronica della moneta nazionale, che un giorno potrebbe sostituire il contante. Dal punto di vista della comodità può sembrare un progresso, ma riflettiamo sulle implicazioni: una moneta digitale di banca centrale sarebbe tracciabile al 100%. Ogni singolo pagamento, per quanto piccolo, verrebbe registrato in un database governativo. Questo darebbe allo Stato (e indirettamente ai potentati che influenzano lo Stato) un potere di sorveglianza assoluto sui cittadini: saprebbero sempre dove spendiamo, cosa compriamo, da dove riceviamo denaro. Non solo, in un sistema completamente digitale il potere centrale potrebbe bloccare o limitare i fondi di un individuo con un click. Immaginiamo un futuro (non troppo lontano) in cui dissentire apertamente dal sistema possa comportare il congelamento dei propri risparmi elettronici con qualche pretesto legale – di fatto rendendo impossibile vivere. Sarebbe il sogno di ogni regime autoritario: un controllo economico diretto su ciascun cittadino, reso possibile dalla scomparsa del contante e dalla totale dipendenza dalla rete finanziaria ufficiale. Questa prospettiva inquietante non è fantascienza, è una possibilità concreta paventata da diversi analisti indipendenti quando discutono di Central Bank Digital Currencies (CBDC) e delle derive di una società senza contante.

Ma il controllo tecnologico non si ferma al portafoglio. L’élite tecno-finanziaria mostra interesse crescente anche per il controllo biologico e sanitario della popolazione. Negli ultimi anni abbiamo visto grandi campagne sanitarie globali, nelle quali colossi farmaceutici e governi hanno collaborato strettamente, gestendo in modo centralizzato la risposta a crisi come la pandemia. Al di là delle opinioni sui singoli provvedimenti, si è affermato un principio pericoloso: per il “bene comune” si possono sospendere diritti individuali fondamentali, come la libertà di movimento, il diritto al lavoro o l’inviolabilità del proprio corpo, e questo con l’acquiescenza di gran parte della popolazione resa timorosa. Si profila così un mondo in cui, sotto la giustificazione di emergenze sanitarie o ambientali, le autorità (eterodirette dai soliti centri di potere) potrebbero imporre trattamenti o restrizioni su larga scala. Qualcuno parla esplicitamente di progetti di bio-controllo: dalla diffusione di farmaci e vaccini di nuova generazione potenzialmente in grado di modificare aspetti dell’organismo umano, fino all’idea di microchip impiantabili per funzioni di identificazione o monitoraggio medico. Ciò che ieri sarebbe parso un delirio oggi inizia a essere discusso apertamente nei circoli tecnocratici come possibile scenario di domani.

Il filo conduttore è sempre lo stesso: rendere l’essere umano un’entità completamente trasparente e governabile, integrata in un sistema dove ogni azione è registrata, ogni pensiero è prevedibile, ogni devianza è immediatamente individuabile e correggibile. In un simile nuovo ordine mondiale tecnocratico, le libertà individuali diventerebbero un ricordo del passato, sostituite da una “libertà vigilata” concessa a patto di non oltrepassare i limiti stabiliti dall’alto. L’umanità, in altre parole, rischia di essere tenuta al guinzaglio corto come mai prima: non più solo guinzaglio economico e mentale, ma anche fisico e digitale.

Conclusione: Consapevolezza come primo passo per spezzare le catene

Il quadro dipinto è volutamente oscuro, perché tali sono i meccanismi sotterranei che abbiamo esplorato. Banche e finanza che governano i governi, debiti impagabili che stritolano nazioni, organizzazioni sovranazionali che svuotano la democrazia, propaganda e paura che manipolano le menti, tecnologie invasive che preparano un controllo totale: insieme, questi fattori delineano un futuro distopico in cui l’umanità rischia di perdere la propria autonomia e dignità. Siamo di fronte a una nuova forma di tirannia, non dichiarata apertamente ma per questo ancor più insidiosa – una tirannia dove il tiranno non ha volto unico, ma è un sistema interconnesso di interessi elitari.

Eppure, conoscere la natura di queste catene è il primo passo per provare a liberarsene. I poteri forti prosperano soprattutto nell’ombra, protetti dal segreto e dall’incredulità generale (“figuriamoci se accade davvero!”). Portare alla luce del sole i loro metodi – per quanto scomodo o difficile – è già incrinare la loro presa. La storia insegna che nessun potere è eterno quando le masse acquisiscono consapevolezza e decidono di riprendere in mano il proprio destino. Ciò richiederà coraggio, lucidità e solidarietà tra le persone comuni, riscoprendo il valore di comunità contro l’isolamento individualista imposto dal sistema.

Al momento, l’umanità cammina con un collare invisibile: illusa di essere libera perché può scegliere quale prodotto comprare o quale programma guardare, mentre i binari principali del suo cammino sono già tracciati. Ma quel collare invisibile – il guinzaglio del denaro e della menzogna – può essere spezzato. Significa rimettere al centro l’essere umano, la verità e la giustizia sociale al di sopra del profitto e del controllo. Significa pretendere trasparenza, reclamare la sovranità popolare sugli apparati finanziari, smascherare le manipolazioni mediatiche, rifiutare la paura come strumento di governo.

Non sarà un compito facile né breve. Chi trae vantaggio dall’ordine attuale si opporrà con tutte le sue forze. Ma la presa di coscienza collettiva è il più grande incubo per queste élite: una popolazione informata e unita, che riconosce il guinzaglio e decide di rimuoverlo, può realmente cambiare le sorti della storia. In fondo, anche il più forte dei poteri si regge sul consenso – sia esso volontario o estorto – dei molti. Togliere quel consenso, spezzare l’incantesimo dell’assoggettamento, è possibile.

“Dire la verità non è difficile, bensì improduttivo”, sostiene un vecchio adagio cinico. Eppure, in queste righe abbiamo cercato proprio di dire verità scomode, quelle verità che raramente trovano spazio nei media ufficiali. Improduttivo? Forse nell’immediato. Ma a lungo termine, la verità è rivoluzionaria. Rende visibile l’invisibile, nomina l’innominabile. E quando abbastanza persone vedranno le catene che le avvolgono, potranno finalmente unirsi per spezzarle. Solo allora l’umanità potrà sciogliere quel guinzaglio e camminare con le proprie gambe verso un futuro più libero e più umano.